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UNO PSICOANALISTA NEI GIARDINI DI KENSINGTON

Se in quello che dico c’e’ qualcosa di vero, di certo i poeti ne avranno già parlato.                                                                                                         

Attraverso l’espressione artistica possiamo sperare di restare in contatto con i nostri sé primitivi da cui derivano i sentimenti più intensi e persino le sensazioni più acute; siamo veramente poveri se siamo solamente sani.

Donald W. Winnicott

1.

Io penso al mio studio come a un orto. Lavoro come un giardiniere e un vignaiolo. Ogni cosa ha bisogno di tempo. Il mio vocabolario, ad esempio, non è venuto fuori tutto in una volta. Si è formulato quasi nonostante me. Le cose seguono il loro corso naturale. Esse crescono, maturano. Devi fare degli innesti. Devi innaffiare, come fai per l’insalata. Le cose maturano nel mio animo. Inoltre, lavoro sempre a un gran numero di cose contemporaneamente. Non ci si deve preoccupare se un quadro durerà, ma se ha piantato semi che daranno vita ad altre cose”.

Joan Miró raccoglieva e aspettava. Poteva succedergli di terminare le proprie opere solo dopo anni. Le “teneva” presso di sé in un rapporto di continuo e muto colloquio con esse, finché non riuscivano ad esprimersi interamente suggerendo loro stesse all’artista il proprio compimento. Le parole di Miró, nell’evocare una disposizione di attesa rilassata e ricettiva, trovano una corrispondenza nel concetto di “lying fallow” (in italiano “rimanere a maggése”) descritto da Masud Khan, psicoanalista molto vicino a Winnicott:

“Noi tutti lo viviamo spesso in momenti fugaci. Molte volte ciò che registriamo consciamente è una pacata riluttanza ad applicarci a qualcosa che vorremmo fare. Ci rimproveriamo con severità ammonitrice, ma in qualche modo non riusciamo a muovere o costringere la nostra capacità esecutiva al dovere. Sentiamo che abbiamo bisogno di restare un po’ in ozio. Se la nostra coscienza o l’ambiente ci costringono ad uscirne, ci sentiamo irritabili e scontrosi. (…) Pur essendo essenzialmente e inerentemente intimo e personale, lo stato di maggese ha bisogno di un’atmosfera di compagnia per poter essere conseguito e mantenuto. Nell’isolamento e nella deprivazione non lo si può né raggiungere né conservare”.

Il rimanere a maggese, così come un terreno ben arato ma non ancora seminato, è dunque una situazione transitoria e fugace dell’esperienza, un modo di essere che è calma vigile e coscienza ricettiva. E’ una condizione intellettuale non conflittuale e non istintuale, una capacità dell’Io, uno stato d’animo non integrato e instabile per lo più vissuto ed espresso soltanto in silenzio, anche con sé stessi. La risposta alla domanda “che vantaggio ci porta lo stato di maggese?” non può che essere un paradosso: molto e niente. In quanto alimento per l’Io e situazione preparatoria, lo stato di maggese fornisce il substrato di energia per la maggior parte dei nostri sforzi creativi.

2.

La nozione di gioco, sottintesa nell’attività artistica di Miró, attraversa gran parte dell’opera di Winnicott. Giocare è un modo particolare di agire, un modo di trattare la realtà in forma soggettiva. Lo sforzo richiesto dal compito di accettare la realtà e di mettere in rapporto la realtà interna con quella esterna, di mantenerle separate e tuttavia correlate (compito che non è mai terminato una volta per tutte), viene alleviato dalla presenza di un’area intermedia di esperienza. Il significato dell’ oggetto transizionale sta nel fatto di implicare l’esistenza di uno “spazio”, lo spazio potenziale che Winnicott colloca tra il soggettivo e l’oggettivo e prima di tutto tra la madre e il bambino. Un oggetto è infatti transizionale nella misura in cui segna il passaggio del bambino da uno stato di fusione con la madre a uno stato in cui, vedendola come qualcosa di separato, può entrare in rapporto con lei.

I fenomeni transizionali consentono al bambino le prime e fondamentali transizioni dalla soggettività all’oggettività in quanto forniscono un ponte tra il mondo interno e quello esterno. Nell’oggetto transizionale Winnicott vede una delle manifestazioni dell’attitudine del bambino a creare, a riflettere, a immaginare, a far nascere, a produrre un oggetto, quindi a simbolizzare. Il bambino abita un’area in cui il gioco, situato in un continuum spazio-temporale, rappresenta una forma fondamentale di vita. E’ infatti di uno spazio che necessita il gioco, sia il gioco rudimentale del bambino che il controgioco della madre. Soltanto in questo spazio il gioco può essere all’origine della fantasia, dell’immaginazione e della creatività.

Questa area di gioco si situa tra la madre e il bambino in uno spazio potenziale che va oltre il concetto di luogo “reale”, in quanto non è né dentro né fuori: non è la realtà psichica ma nemmeno la realtà esterna. Questo spazio, questo luogo potenziale è poi il luogo della stessa analisi e del transfert, delle attività artistiche e degli “squiggles”, i disegni elementari che permettono di stabilire una comunicazione con il bambino.

In un passo di Robert Musil, tratto da “I turbamenti del giovane Törless”, questo spazio intermedio, questo luogo di continuità-contiguità in cui si originano i fenomeni transizionali, sembra rivelarsi come una sorta di “frontiera” situata tra due realtà e attraverso la quale avviene una comunicazione tra il dentro e il fuori:

“(…) ciò che in distanza appare così grande e misterioso viene sempre a noi come qualcosa di semplice, piano, nelle proporzioni naturali di ogni giorno. Come se una invisibile frontiera venisse tracciata intorno a ciascuno. Ciò che si prepara al di fuori e s’avvicina di lontano è come un mare nebuloso, pieno di figure gigantesche e mutevoli; ciò che si avvicina a ciascuno e diventa azione e s’urta con la sua vita, è chiaro e piccino, di dimensioni e di lineamenti umani. E tra la vita che si vive e la vita che si sente, immagina, vede di lontano, c’è quella frontiera invisibile, e nella sua porta stretta debbono comprimersi le immagini degli eventi per entrare nell’uomo (…)”.

3.

A proposito del concetto di salute psichica, Winnicott sottolinea come una buona parte della vita di un individuo sano si definisca attraverso differenti modalità di relazione d’oggetto e attraverso un processo di va e vieni all’interno della relazione con gli oggetti esterni e con quelli interni. Ciò contribuisce a dare un sentimento di realtà, un sentimento di esistere. E le esperienze che vengono dall’agire alimentano a loro volta la realtà psichica personale, l’arricchiscono e ne allargano il campo. Il mondo interno è collegato al mondo esterno pur restando personale e capace di una vita propria.

Nella psicosi, in cui è presente un allentamento dei legami tra la psiche da una parte e il corpo e le sue funzioni dall’altra, la relazione con gli oggetti invece funziona male: la persona stabilisce una relazione con un mondo soggettivo ma difficilmente arriva a stabilire relazioni con oggetti esterni. E’ come se delle due realtà, quella interna e quella esterna, una sia inevitabilmente di troppo.  Nella psicosi tra queste due realtà (e tra spazio del dentro e spazio del fuori) non c’è niente di intermedio, niente di interstiziale che separi e unisca. Si verifica allora una sorta di corpo a corpo diretto, un accostamento immediato del fuori e del dentro tale da produrre un attrito che può risultare drammaticamente traumatico. In tutti questi casi vi è dunque una lesione dello spazio transizionale: questo interstizio è slabbrato, frantumato, polverizzato.

Il fatto di trovare nello spazio terapeutico un luogo, un ambiente sul quale può contare, agisce per la persona come un invito a lasciarsi andare, a non mantenere la propria integrazione precaria. L’effetto di questo lasciarsi andare, di questa regressione, può essere il crollo, il “breakdown”, ma quest’ultimo secondo Winnicott porta con sé un germe di guarigione e deve essere considerato come un tentativo di autoguarigione:

“E’ sbagliato pensare alla malattia psicotica come a un crollo, essa è un’organizzazione della difesa relativa ad una agonia primitiva, ed è di solito efficace, eccetto quando l’ambiente facilitante è stato non insufficiente ma tormentante, forse la cosa peggiore che possa capitare ad un piccolo essere umano. La paura del crollo è la paura di un crollo che è stato già sperimentato. E’ la paura dell’agonia originaria che ha causato l’organizzazione della difesa, che il paziente manifesta come una sindrome patologica”.

L’agonia originaria a cui fa riferimento Winnicott coincide con una precoce ed eccessiva deprivazione che il bambino non può né comprendere né allontanare. Ciò che viene inconsciamente registrato è un’interruzione, un annullamento, un’assenza nell’espressione del Sé. Non a caso Winnicott parla dell’inconscio come del luogo in cui vengono conservate tutte le deprivazioni. La funzione del terapeuta consiste allora nel supplire, con quello che sa dell’ambiente materno della prima infanzia, all’impossibilità in cui si trova il paziente di evocare un ambiente sempre sottinteso e mai oggetto di una vera presa di coscienza. Lo scenario psicoanalitico, assicurando quei mezzi necessari alla crescita che la persona non ha avuto nei primissimi periodi della sua vita, può essere visto come uno spazio transizionale di scambio collaborativo.

A questo proposito Maud Mannoni mette in relazione la nozione di preclusione, introdotta da Freud e sviluppata da Lacan, con il concetto di “breakdown” quale appare in Winnicott:

“Si tratta di un crollo (…) che ha avuto luogo nel passato senza trovare un luogo (psichico) per riceverlo. Questo passato precluso può allora riapparire solo nel reale. E perché il paziente “guarisca” deve talvolta passare di nuovo attraverso una sorta di “crollo”, trovare un luogo per riceverlo”.

4.

Essere sentirsi reale sono per Winnicott la caratteristica della salute psichica, che consiste nell’avere “il sentimento di sé” e il “sentimento di essere”:

“In un ambiente che ha cura del bambino in modo soddisfacente, questi è capace di compiere uno sviluppo personale in funzione delle sue dotazioni innate. Ne risulta una continuità d’esistenza che diviene sentimento di esistere, un sentimento di sé e che conduce all’autonomia”.

“Dopo essere-fare, ed essere fatto per. Ma prima di tutto, essere”.

La potenzialità creativa dell’essere umano dipende da un elemento che Winnicott chiama elemento femminile. Questo elemento ha a che vedere più con l’essere che con il fare. Il fare invece è in relazione con l’elemento maschile. Questa divisione tra l’essere e il fare, tra elementi femminili e maschili, è collegabile a un mito della cultura occidentale: il mito dell’essere androgino. Nato nella cultura greca, questo mito ha continuato così a lungo la sua strada al punto da ispirare, attraverso la nozione di dualismo psichico introdotta da Jung, alcune pagine di Gaston Bachelard secondo il quale l’elemento maschile puro – l’animus – ha molto più a che vedere con il fare, mentre l’elemento femminile puro – l’anima – ha molto più a che vedere con l’essere. In questa prospettiva il sogno deriva dall’animus, mentre la rêverie è, sia nell’uomo che nella donna, una manifestazione dell’anima.

Nel pensiero di Winnicott la salute psichica coincide con la maturità che corrisponde alla maturità propria dell’età dell’individuo:

“… è sano avere 6 anni a 6 anni e 10 anni a 10 anni”.

Un enunciato simile lo troviamo nel “Peer Gynt” di Ibsen a proposito del motto che distingue i trold dagli uomini: “Ti basti essere come sei!” dice il vecchio di Drove a Peer. E quest’ultimo, che non riesce a far proprio questo motto, si dibatte una vita intera tra pretese e aspettative muovendosi nel tempo e nello spazio al ritmo frenetico di una indefinita ricerca.

Alla persona lontana dalla salute psichica, così come al personaggio di Ibsen, non basta essere come è. In ciò consiste la sua malattia, l’inesistenza di quell’armonia “psiche-soma” e di quella tolleranza nei confronti delle frustrazioni e dei propri limiti che provengono soltanto da quello che Winnicott chiama ambiente sufficientemente buono:

“E’ sufficientemente buono l’ambiente che presenta fin dall’inizio un alto grado di adattamento ai bisogni del bambino. La madre generalmente ne è capace (…). L’adattamento diminuisce proporzionalmente alla crescita, nel bambino, del bisogno di fare esperienza delle reazioni alla frustrazione. La madre sana è capace di differire il momento della diminuzione dell’adattamento a quando il bambino sarà in grado di reagire con la collera, e non con il trauma, a tale diminuzione di adattamento ambientale. Il trauma è una frattura nella continuità dell’esistenza dell’individuo. E’ proprio sulla continuità dell’esistenza che il sentimento di sé, della realtà e di esistere possono costituirsi come tratti della personalità individuale”.

Un ambiente, potremmo dire, che per il fatto di permettere al bambino di essere quello che è, abbia fatto propria la regola del Re contenuta nella favola “Il Piccolo Principe” di Saint-Exupéry:

“Se ordinassi a un generale di volare da un fiore all’altro come una farfalla, e di scrivere una tragedia, e di trasformarsi in un uccello marino; e se il generale non eseguisse l’ordine ricevuto, chi avrebbe torto, lui o io?”

“L’avreste voi” disse con fermezza il Piccolo Principe.

“Esatto. Bisogna esigere da ciascuno quello che ciascuno può dare”, continuò il Re.

Sul piano terapeutico il corrispettivo di questo ambiente sufficientemente buono non è altro che la possibilità che ha il terapeuta di farsi custode di un sicuro spazio transizionale per il paziente e di offrire a quest’ultimo un’esperienza di continuità.

5.

Fare le cose – e non semplicemente pensare o desiderare di fare – richiede tempo. E giocare vuol dire fare. Per Winnicott la psicoterapia ha luogo laddove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. In altre parole la psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine quello di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace:

“L’interpretazione data quando il paziente non ha alcuna capacità di giocare è semplicemente inutile, o è causa di confusione. Quando vi è un gioco mutuo, allora l’interpretazione può far progredire il lavoro terapeutico. Questo gioco deve essere spontaneo, e non compiacente o acquiescente, se si deve fare della psicoterapia”.

Il gioco e il concetto di area intermedia entrano a far parte anche della “tecnica” psicoterapeutica che Winnicott ha proposto per i bambini. Un gioco senza regole nel quale ciascuno si lascia prendere e sorprendere, e dove l’essenziale è che qualcosa succeda. Che cos’é infatti lo “squiggle” se non la possibilità che hanno il terapeuta e il suo piccolo paziente di partire per il loro viaggio attraverso lo spazio transizionale?

“Io chiudo gli occhi e traccio una linea nel foglio, tu la fai diventare quello che vuoi, poi tocca a te fare la stessa cosa mentre io la faccio diventare ciò che voglio”.

Sono le parole che danno il via al gioco degli scarabocchi.

E all’inizio del ‘900 J. M. Barrie, il creatore del personaggio di Peter Pan, scriveva:

“Devo dirvi ora come ci comportiamo quando raccontiamo una storia: prima gliela racconto io, poi lui la racconta a me, con l’intesa che è una storia del tutto diversa; poi io la racconto di nuovo con le sue aggiunte e così andiamo avanti finché nessuno riuscirebbe a dire se si tratta più della sua storia o della mia”.

© f. moroni

FRAMMENTI DI UNA PRATICA

All’inizio della mia attività di psichiatra ho lavorato alcuni anni presso il Servizio di Igiene Mentale di una piccola città di mare. Quelli che seguono sono alcuni frammenti relativi a quell’esperienza di curiosità, entusiasmo e disillusione.

1.

Un giorno d’estate è entrata nella mia stanza una ragazza. Indossava un vestito a fiori e aveva i capelli chiari e lunghi. Teneva tra le mani uno specchietto e fissava la propria immagine nascondendo il viso. Ha cominciato a parlare senza guardarmi. “Sei passato dall’altra parte dello specchio?” mi ha chiesto. “Hai paura della morte? Sei stato in Paradiso? Sai che il Paradiso è qui sulla Terra?”.

Ha abbassato lo specchietto e si è messa a piangere. Aveva un bel viso. Mi ha chiesto di portarla alla fontana dove c’è l’acqua santa. E ha parlato di un quadro. “Chi ha fatto la Gioconda?” ha detto. “Sai che Leonardo non l’ha firmato? Dov’è la firma? E’ nella coda del pavone. E’ nella fontana di piazza Cavour”. Mi ha parlato anche di un terzo occhio che si troverebbe in mezzo agli altri due. Ha segnato il punto toccandosi la fronte con un dito.

I suoi occhi verdi erano incollati ai miei. Mi guardavano da un altro mondo. Che cosa mi chiedevano? Di lei sapevo solo che era appena ritornata dall’India. E che i genitori avevano trovato un trenino nella sua borsa. Un trenino di plastica.

2.

La notte di Capodanno ha rotto con un pugno la porta a soffietto che separa la cucina dalla sala da pranzo. Poi è rimasto sveglio fino al mattino. I genitori lo sentivano camminare per casa e facevano finta di dormire.

Quando vado a trovarlo lui non c’è. La madre mi dice che è andato al bar e che non vuole incontrarmi. “Può aspettarlo” aggiunge mentre sto guardando i resti della porta. A una parete vedo un quadretto raffigurante Napoleone seduto in poltrona. Tiene le gambe accavallate e una mano nel gilè. L’altra sorregge la testa. Sta dormendo. Accanto a lui c’è una bambina appoggiata a un tavolo, e sul tavolo un soldatino francese disteso vicino a un cavallo bianco. La bambina guarda nella mia direzione e tiene un dito davanti alla bocca. Sotto il disegno c’è scritto: “Silenzio, il babbo sta riposando”.

“Oggi è più tranquillo” dice la donna sistemando dei fiori in un vaso. “Vuole comprare una porta nuova”.

Decido di andarmene e di vedere il mare prima di rientrare al Servizio.

“Ci sono momenti in cui le parole possono bruciarle le tue orecchie, o renderle inservibili” mi aveva detto durante il nostro ultimo incontro. “Io l’ho provato, e non è piacevole”.

3.

Fin da piccola è stata attratta dai vetri. In famiglia dicevano che aveva la fissazione per le cose trasparenti. Quando l’ascolto per la prima volta, ha compiuto da poco ventitré anni. Mi chiede di aiutarla. Se si trova sola in casa comincia a battere i pugni sui vetri o sugli specchi, prima piano e poi sempre più forte finché non si rompono. Allora entra in crisi e si sente lei stessa in frantumi.

Si alza dal letto col pensiero dei vetri che romperà nel corso della giornata. Ultimamente ha iniziato anche con gli indicatori della sua auto. Appoggia le dita sulle asticelle e preme finché non si spezzano. Alla vigilia dell’appuntamento con me, lo ha fatto con la cerniera dei pantaloni. E la mattina del colloquio con quella della gonna. Si alza in piedi e mi fa vedere la cerniera rotta.

Perché fa tutto questo?

E’ lei stessa a trovare la risposta. “Aggredisco gli oggetti per metterli alla prova” mi dice. “Per vedere se si rompono o se resistono”.

4.

Da alcuni anni si è messo a girare l’Italia con la chitarra. Un giorno a Firenze, l’altro a Venezia e così via. Suona per le strade e nelle piazze. La notte, quando trova posto, la passa nei dormitori pubblici. Aveva lavorato come fattorino alle Poste, poi era stato licenziato perché era convinto che i colleghi ce l’avessero con lui.

Adesso è seduto davanti a me. La sua chitarra è appoggiata alla parete.

“Se resto in famiglia ho paura di esplodere” dice.

E’ di passaggio nella città dove vivono i genitori. Si fermerà solo un paio di giorni. Guardo gli adesivi che ricoprono la chitarra.

“Sono i miei souvenir” dice.

5.

“Ho le lacrime in tasca” mi dice una giovane donna che soffre di anoressia.

6.

“I miei occhi facevano un chiasso terribile” mi dice una donna operata per un tumore cerebrale.

7.

Tira fuori un cacciavite dalla tasca della giacca e lo punta contro la sorella. “Devi telefonarle subito” le dice. Si trovano in auto e stanno tornando a casa. Lei ferma la macchina e scende piangendo. Lui rimane seduto col cacciavite in mano. Poi la raggiunge e le chiede scusa. Sembra un’altra persona. “Un agnellino” racconterà la sorella alle amiche.

Due anni prima la sua ragazza l’ha lasciato per sposare un altro. Ha lasciato anche la città, ma una volta al mese ritorna per fare visita ai genitori. Così capita che lui la riveda perché abita davanti alla casa dove viveva la ragazza. Quando la vede arrivare smette di parlare, si siede alla finestra e resta con lo sguardo fisso su quella casa.

“Devi trovare la ragazza giusta” gli dice la madre. E gli ripete che aveva ragione lei a dire che quella era sbagliata. Dal giorno del matrimonio ha cominciato a pretendere che fosse la sorella a telefonarle. “Perché devo farlo io?” gli chiede ogni volta. Lui risponde che tra donne è più facile intendersi.

8.

“Ho cominciato a sentire le voci dopo la separazione da mio marito” mi dice tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Ha gli occhi chiari e i capelli biondi. E’ ancora una bella donna, ma nascosta da un trucco troppo pesante. Le voci le sente quando si trova sola in casa. E soprattutto la notte. Sono voci di spiriti.

“Le sento anche quando mi guardo allo specchio” dice. Per non sentirle si sdraia sul letto e si passa una mano sul corpo più volte finché non scompaiono. La chiama “autoipnosi”. Ripete anche alcune frasi in latino. “Per scacciare il demonio” dice. Le capita di restare come incantata, oppure di parlare da sola o di mettersi a camminare.

“Non sono più io a mangiare, a camminare, a parlare” dice. “Sono gli spiriti a fare queste cose”. Ricorda di aver conosciuto una coppia di amici del marito che praticavano sedute spiritiche. Le avevano parlato delle sue proprietà mediatiche e le avevano preannunciato che uno spirito, sotto sembianze umane, le avrebbe fatto visita a mezzanotte. “Quella notte mi sono sentita sprofondare nel vuoto” dice. Da allora ha iniziato le pratiche di spiritismo, da sola o in compagnia. Credeva di essere una medium. Uno spirito le avrebbe detto che il marito aveva un’altra donna. Lei pensava che la tradisse con sua madre. “Ti separerai da tuo marito” le aveva detto lo spirito. Dopo un anno il marito se n’era andato di casa.

Ora lei vive con la madre. “Mi tratta come una bambina” dice. Si è accorta che di notte la madre va a toccare le sue scarpe. Ecco perché durante il giorno ondeggia e non riesce ad avere un equilibrio stabile. “Vuole farmi del male” dice.

Gli spiriti non sono soltanto fuori ma anche dentro il suo corpo. Tra questi ce n’è uno che le procura un forte piacere sessuale. “E’ lo spirito buono” dice. “Quello che fa l’amore con me”. Gli spiriti cattivi invece sono quelli che la disturbano di notte e quelli che durante il giorno la comandano e la ingannano. “Mi dicono di uscire di casa perché c’è poco sole. Io esco, guardo il cielo e dopo un po’ le nuvole scompaiono e viene fuori il sole”.

Comincia a guardarmi con i suoi occhi chiari. Poi mi chiede di abbassare le tapparelle della finestra. “Nel sole c’è qualcosa che non dovrebbe esserci” dice. Le porgo un foglio e una matita e le chiedo di disegnare una figura femminile. Lei tratteggia una ragazzina esile dai capelli corti e dallo sguardo dolce. Sulla gonna disegna un sole e al posto dei piedi una mezzaluna orizzontale. E’ una ragazzina sospesa in aria.

9.

La sua anoressia si era accentuata dopo il matrimonio. Quando era arrivata da me aveva alle spalle due ricoveri in medicina interna e un rapporto di coppia fatto di silenzi distanti. “Pensa di potermi aiutare?” mi aveva chiesto alla fine dell’incontro. Sapevo che se si trovava davanti a me era solo per “accontentare” il marito, ma sentivo che non sarebbe stato impossibile aprire un varco, seppur minimo, nelle sue difese.

Qualche mese dopo l’inizio dei nostri colloqui mi porta un sogno. Il giorno delle nozze lei arriva in ritardo all’appuntamento in chiesa. Ad aspettarla, oltre al marito, vede un sacerdote alto e vestito di bianco: è il medico che l’ha ricoverata per due volte nel suo reparto. Le dice: “Non ti sposo perché sei in ritardo”.

Dopo aver raccontato il sogno, dice che il marito le fa notare sempre di essere in ritardo su tutte le cose. “Mi blocca nei miei entusiasmi” dice. Poi ricorda che l’ultima volta che era stata visitata dal medico si era sentita dire che se non avesse accettato un terzo ricovero lui non avrebbe fatto più niente per lei. “Tanto fuori da sola non ce la fai” le aveva detto.

Ogni volta che si è fatta ricoverare lo ha fatto solo per dimostrare che non sarebbe ingrassata. Usciva dall’ospedale così come era entrata. La bilancia non registrava alcuna variazione.

L’ombra del marito da “accontentare” si è gradualmente allontanata, e la donna che adesso siede davanti a me non è qui per ingrassare ma per conoscere se stessa.

© f. moroni

PSICOSI E NEUROLETTICI: UN APPROCCIO PSICOFARMACOLOGICO “DINAMICO”

Lavorare in un’istituzione psichiatrica significa soprattutto confrontarsi col mondo della psicosi e con la necessità di operare delle scelte anche a livello psicofarmacologico. Le considerazioni che seguono, basate sull’esperienza maturata nei primi anni della mia attività di psichiatra, sono il tentativo teorico e clinico di articolare tra loro la pratica psicoterapeutica istituzionale con l’uso dei neurolettici. L’articolo originale da cui sono tratte è stato pubblicato anni fa nel volume “Psicosi Corpo Linguaggio” come numero di “Le Voci”, rivista di teoria e pratica nelle istituzioni psichiatriche.

In psichiatria le modificazioni che attraversano il campo della relazione terapeutica, allorché questa comprende anche un approccio psicofarmacologico, vanno comprese in termini che non si accontentino di rilevare solo i cambiamenti a livello comportamentale. Occorre andare oltre la pur necessaria valutazione biologica dei meccanismi d’azione e degli effetti farmacologici degli psicofarmaci. Non è sufficiente arrestarsi al registro compilativo delle indicazioni e controindicazioni o al catalogo delle incidenze collaterali. L’azione dei farmaci psicotropi si esplica a vari livelli: elettrofisico-cellulare, biochimico, microanatomico, neuro-anatomofisiologico, farmacologico, clinico.

Di questi è senz’altro il livello clinico a interessare nello specifico lo psichiatra, il quale se non vuole trasformarsi in una sorta di alchimista prescrittore non può non domandarsi quale sia il senso di ciò che accade a livello clinico. Proveniente da un insegnamento come quello medico, centrato quasi esclusivamente sulla valutazione sintomatica e metabolica del farmaco, lo psichiatra rischia di trovarsi impreparato di fronte a tale interrogativo. Il rischio è ancora maggiore se si viene catturati da una pratica che, soprattutto nella sua articolazione ambulatoriale, tende a favorire una routine prescrittiva e un uso del farmaco basato su criteri “behavioristici”. A meno che venga posta in maniera critica la questione di quello che potremmo definire un approccio psicofarmacologico “dinamico”.

Solo in questo caso è possibile andare oltre la semplice lettura “quantitativa” delle modificazioni introdotte dal farmaco (ad es. aumento della dose = maggiore riduzione della sintomatologia) per arrivare alla messa a punto di una sorta di “griglia” le cui coordinate, basate su un’analisi psicodinamica e fenomenologica, tengano conto del processo terapeutico nel suo aspetto individuale e nel suo aspetto interpersonale.  Al di là delle azioni specifiche sul biologico, il farmaco è responsabile di effetti psichici diretti che dipendono dalla relazione medico-malato e che, usando un’espressione di Blanc, potremmo chiamare “effetti Balint”. E soltanto in questa direzione è possibile sfuggire, non solo a parole, alla rigidità e fissità della nosografia psichiatrica tradizionale.

Il superamento di quest’ultima, oltre che apparire inevitabile solo considerando le profonde modificazioni che la pratica farmacologica determina all’interno dei vari quadri clinici, diventa possibile introducendone una nuova, i cui parametri più che descrittivi e comportamentali siano strutturali e psicodinamici. Così la “nosografia” psicoanalitica, a partire dai lavori teorici e clinici di Abraham sulle relazioni tra struttura ossessiva e struttura melanconica, fino alle più recenti considerazioni di Green e Guyotat da una parte e di quelle di Pichon-Riviere e di Kesselman dall’altra, permette di comprendere i rapporti strutturali che legano le diverse entità cliniche tra loro. Vale a dire una nosografia costruita facendo giocare il più ampiamente possibile i parametri della metapsicologia freudiana.

Proprio a partire dalla conoscenza e dalla utilizzazione clinica di questi parametri è possibile avvicinarsi all’analisi delle modificazioni che il farmaco introduce all’interno del rapporto terapeutico, sia sul versante che potremmo definire “soggettivo” o individuale (la malattia), sia su quello “interpersonale” (le relazioni oggettuali e le dinamiche transferali). La conoscenza psicoanalitica può infatti illuminare certi aspetti dell’azione farmacodinamica come la relazione del malato con il farmaco e con chi lo prescrive; ma al tempo stesso la relazione del medico e del curante con il farmaco e con il malato attraverso il farmaco.

In particolare ci riferiamo qui all’azione dei neurolettici nella schizofrenia (e più in generale nelle psicosi) in quanto soprattutto a questo livello l’approccio psicofarmacologico ha aperto nuove possibilità terapeutiche, favorendo in primo luogo un incontro e un ascolto laddove prima il terreno su cui lavorare si presentava franoso e scarso di supporti in grado di orientare clinicamente l’azione terapeutica.

Se si presta anzitutto attenzione all’aspetto psicodinamico, non può meravigliare la constatazione che, nei casi in cui il farmaco viene prescritto solo come agente chimico anziché essere utilizzato nella relazione terapeutica globale, la riduzione delle manifestazioni psicotiche è spesso recepita e vissuta dal malato più come un peggioramento che non come un miglioramento del suo stato psichico. Ciò è comprensibile infatti nella misura in cui le nozioni di ripiegamento su sé stesso, di delirio e di allucinazione vengono considerate come difesa.

Come scrive Racamier “la proiezione è impiegata dall’Io schizofrenico non soltanto per evacuare ed espellere fuori di sé pulsioni o fantasmi indesiderabili, ma anche per ricostituire un esterno in rapporto a un interno, in un lavoro incessantemente ripreso daccapo”. Se la ristrutturazione psicotica si realizza allora attraverso l’elaborazione del sistema proiettivo, l’azione del neurolettico è spesso vissuta in profondità dallo schizofrenico come un attacco alla propria integrità poiché incide proprio sulla elaborazione di questo sistema.

Non è raro nella pratica clinica incontrare malati che definiscono i loro farmaci come “paralizzanti del pensiero” o come “distruttori del cervello”. Rosanna, una giovane psicotica le cui notti trascorrono quasi sempre in un clima di influenzamento e di trasmissione del pensiero, ripete spesso che “le medicine consumano le cellule del cervello” e che, togliendole la forza, “distruggono i pensieri”. Luisa, particolarmente quando attraversa una fase di eccitamento ipomaniacale, non accetta la terapia neurolettica in quanto essa “modifica il carattere” e la trasforma “in un’altra persona”. Gianfranco, nel corso di una terapia di mantenimento in seguito a una bouffée delirante, mostra una periodica sfiducia nei farmaci in quanto essi “portano il vuoto” e “impediscono di pensare”. Il farmaco può dunque diventare a sua volta il cattivo oggetto persecutorio interno.

Si tratta allora, rispetto all’uso del neurolettico all’interno di una relazione terapeutica, di collocare nozioni freudiane come quella di pulsione o di difesa al posto “dinamicamente” giusto in rapporto alla struttura psicopatologica specifica, alla sua evoluzione e soprattutto alle modificazioni in essa introdotte dal farmaco. In termini dinamici possiamo così rilevare che sotto l’effetto dei neurolettici si determina nella psicosi una diminuzione dell’intensità pulsionale e secondariamente un ritorno dei fantasmi al servizio dell’Io, in grado ora di far fronte agli eccitamenti pulsionali.

L’attenuazione del sistema proiettivo si spiega infatti non con la diminuzione dell’intensità pulsionale ma col ritorno al servizio dell’Io di una certa quantità di libido che permette un investimento degli oggetti e quindi della realtà. In termini evolutivi si potrebbe dire che il neurolettico riporta in qualche modo l’Io nella condizione in cui si trovava nella pre-adolescenza, prima cioè che la spinta pulsionale ne provocasse il fallimento.

I tre criteri usati dalla teoria psicoanalitica per spiegare il funzionamento mentale, vale a dire il criterio dinamico, quello economico e quello topico, possono esserci d’aiuto per esprimere la specificità dell’azione clinica dei neurolettici.

Seguendo il punto di vista dinamico l’attenzione cadrà allora sugli effetti dell’ondata pulsionale nel gioco delle difese a disposizione dell’Io. L’attenuazione delle spinte pulsionali permette di spiegare la possibilità che ha l’Io psicotico, nei limiti della sua struttura, di rinviare la scarica e di ricomporre le sue difese a livelli meno primitivi. Inoltre la riduzione dell’angoscia, allontanando l’eventualità delle reazioni d’allarme, elimina le minacce all’integrità dell’Io attraverso il suo intervento nella dinamica pulsionale.

In questo senso i neurolettici rappresentano, proprio per lo stretto legame clinico esistente tra angoscia e direzione difensiva dell’Io, dei validi riduttori dei meccanismi di difesa messi in opera dall’Io psicotico nella sua lotta contro un’angoscia intensa e dilaniante. Il loro impiego sarà dunque tanto più vantaggioso quanto più il malato è obbligato a ricorrere a mezzi di difesa arcaici – quali l’identificazione proiettiva e la scissione – per far fronte alle esigenze pulsionali e a quelle della realtà. Ciò rende possibile, attraverso la riduzione dei meccanismi psicotici di difesa, una migliore utilizzazione delle parti ancora sane dell’Io e il ripristino delle relazioni oggettuali.

L’aspetto economico riguarda essenzialmente le modificazioni che i neurolettici determinano nella ripartizione degli investimenti narcisistici, i quali sono preliminari a ogni modificazione libidica della relazione d’oggetto. Mentre nella genesi e nell’organizzazione normale della relazione d’oggetto le correnti oggettuali e narcisistiche si integrano reciprocamente, nello schizofrenico è come se la preservazione narcisistica e l’attrazione oggettuale siano contrapposte da un antagonismo innato e irriducibile. Qui l’oggetto è sempre, al tempo stesso, temibile e minacciato, pericoloso e necessario.

Non è quindi fuori luogo affermare che I’Io giudica un farmaco prima di tutto dal “comfort” narcisistico che gli procura. In questo senso è proprio l’influenza del farmaco sull’Io che lo porta ad essere accettato o rifiutato, e ciò pone in primo piano l’intimo legame esistente tra farmaco e integrità narcisistica. E’ infatti una costante della pratica clinica l’osservazione che nel corso dei trattamenti con neurolettico non si ritrova l’investimento narcisistico felice che caratterizza i trattamenti con antidepressivi.

A questo proposito, analizzando gli effetti dei farmaci antidepressivi nella schizofrenia, Guyotat afferma che “l’aumento della libido narcisistica procurato dal farmaco porta il soggetto alla ricerca di oggetti esterni a sé stesso”. Si verificano allora due possibilità, a seconda che si tratti di una struttura psicotica molto dissociata o di una struttura psicotica in malati che hanno potuto creare delle relazioni d’oggetto narcisistiche sufficientemente stabili. Nel primo caso il farmaco porta il malato a investire a vuoto il mondo esterno, facendolo regredire verso una onnipotenza narcisistica del pensiero. Diversamente nel secondo caso il malato resta capace di una relazione d’oggetto narcisistica che il farmaco rende più soddisfacente sia per lui che per lo stesso terapeuta. Il delirio può allora sparire o attenuarsi nella misura in cui non ha più utilità funzionale.

Mentre gli antidepressivi sono più facilmente accettati (si pensi solo all’emersione progressiva da uno stato melanconico come segnale di un reinvestimento narcisistico altrettanto progressivo dell’Io), i neurolettici sono generalmente rifiutati. Per quanto riguarda la psicosi maniacale questo rifiuto è facilmente comprensibile: il neurolettico conduce il palato alla depressione, cioè svuota il suo Io di libido narcisistica. Gli aspetti depressivi che compaiono sotto neurolettico confermano, tra l’altro, le ipotesi psicoanalitiche circa i rapporti tra struttura maniacale e struttura melanconica in quanto evidenziano chiaramente il significato difensivo della mania nei confronti della depressione.

Nella schizofrenia i neurolettici colpiscono il narcisismo e la megalomania che permettono al malato di trovare intensi soddisfacimenti nel terreno fantasmatico della psicosi. Il farmaco travolge l-organizzazione psicotica realizzatasi sotto il primato del narcisismo e del principio di piacere e costringe il malato a rivedere il sistema dei soddisfacimenti che riceve dai suoi sintomi. Di qui la possibilità, nel corso di trattamenti con neurolettici, che i malati più autenticamente schizofrenici presentino degli slittamenti depressivi che assomigliano abbastanza da vicino alla melanconia, o meglio a uno stato particolare per il quale ci sembra opportuna la definizione di Resnik di depressione narcisistica, caratterizzata essenzialmente dalla “perdita del mondo ideale, quello del delirio”.

In questi casi, sebbene l’apparenza sia più quella di forme passive e adinamiche di depressione, alcuni schizofrenici , trovano l’energia per un tentativo di suicidio. Occorre allora valutare attentamente fino a che punto convenga, in malati deliranti e allucinati, sopprimere radicalmente con un farmaco la compensazione alla loro capacità di investire la realtà poiché spesso la persistenza del delirio può funzionare come salvaguardia della loro integrità.

Un discorso più approfondito meriterebbe il vissuto relazionale della farmacoterapia-retard, cioè quella basata sull’impiego di neurolettici ad azione prolungata. Se infatti il mantenimento della terapia farmacologica da una parte rinvia alla possibilità di evitare il ritorno dei periodi critici, dall’altra se non viene integrata in un progetto terapeutico globale non può che offrire un’azione terapeutica tronca che ha meritato la definizione dei neurolettici come sostituti moderni delle vecchie camicie di forza. Una tale critica è certamente giustificata laddove l’uso del farmaco resta ancorato a semplici criteri comportamentali sui quali basarsi per “spiare” il malato e rinnovare l’iniezione.

Ciò che dunque occorre tener presente non è tanto l’apparenza, cioè i cosiddetti “effetti secondari” del farmaco, quanto piuttosto l’azione più profonda sulle disposizioni elettive dell’Io. Nella psicosi infatti possiamo pensare che gli effetti secondari come la sonnolenza, le vertigini, le limitazioni della motilità, siano vissuti, presentati e descritti come una castrazione, nei cui confronti sono possibili due atteggiamenti: o il rifiuto del farmaco o al contrario la sua accettazione come male minore in quanto magicamente esso protegge da una più grande castrazione contenuta nell’esperienza destrutturante della ricaduta.

Quanto al punto di vista topico, che resta comunque complementare agli altri, non ci sembra azzardato affermare che i neurolettici possono concorrere, sebbene in misura minore rispetto agli antidepressivi, al ristabilimento di un equilibrio tra le diverse istanza psichiche. La riduzione delle spinte pulsionali e dell’angoscia, insieme alla possibilità di utilizzare meccanismi di difesa meno arcaici e di riparare la rottura degli investimenti oggettuali, può favorire una minore drammaticità nelle interazioni fra Es, Io e mondo esterno.

Bibliografia

C. Blanc, La psychopharmacologie: les mots, les drogues e l’esprit, L’évolution psychiatrique, 1966.

H. Kesselman, Psicopatologia del legame, in Psicoterapia e scienze umane, 1979.

P.C. Racamier, L’interprétation psychanalytique des schizophrénies, Encyclopédie méd.-chir. Psychiatrie, 1976.

J. Guyotat, Aspects du narcisisme dans les psychoses, L’évolution psychiatrique, 1970.

S. Resnik, Persona e psicosi, Einaudi, 1976.

© f. moroni